4.10.09

John Cage

“Mi è sempre parso che la musica dovrebbe essere soltanto silenzio”, ha scritto Marguerite Yourcenar. L'affermazione potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è. E' materia sonora a tutti gli effetti, sottolinea e amplifica i suoni, li rende più vibranti, ne preannuncia l'entrata, crea suggestivi effetti di attesa e sospensione, può addirittura invadere il linguaggio. Il silenzio, il non detto, sono dunque pieni di potenziale significato, e non soltanto in musica: basti pensare alla psicoanalisi (nel momento in cui Webern scopriva il silenzio in musica, Freud lo scopriva in analisi), o alla filosofia, che, secondo Ludwig Wittgenstein, finisce proprio con il silenzio (“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, si legge nel suo Tractatus). Purtroppo però, almeno nella maggior parte del mondo occidentale, il silenzio viene utilizzato assai raramente, perché ha un valore negativo e viene generalmente associato alla morte. I suoni, i rumori, ci ricordano invece di non essere soli, di essere vivi: rimuoviamo la morte facendoci sommergere dal rumore. Mai prima di John Cage però la “musica silenziosa” aveva osato tanto. Esattamente cinquant'anni fa, nel 1952, il geniale compositore presentò la sua rivoluzionaria partitura 4.33, che racchiude in sé molti aspetti dell'estetica cageana, e che egli stesso definì il suo pezzo migliore.“Cerco di pensare a tutta la mia musica posteriore 4.33 come a qualcosa che fondamentalmente non interrompa quel pezzo”. Chiunque di noi, compresi tutti coloro che non hanno mai preso uno strumento in mano, lo può eseguire magistralmente. Perché? La domanda è più che legittima. Basta indossare un abito da concerto (giusto per entrare meglio nella parte dell'esecutore) e accomodarsi al pianoforte per quattro minuti e trentatré secondi, senza suonare alcunché. L'esecutore non deve fare assolutamente niente e il pubblico non deve fare altro che ascoltare, ascoltare la “musica” che viene creata dai rumori interni alla sala da concerto, bisbigli, colpi di tosse, scricchiolii vari, ed anche da quelli che provengono dall'esterno. Cage ha dimostrato così che il silenzio assoluto non esiste (nemmeno in una stanza anecoica, e cioè totalmente insonorizzata, perché anche lì uno sente almeno il proprio battito cardiaco). Il silenzio sarebbe da intendersi dunque semplicemente come un rumore di sottofondo. Con 4.33 Cage ha rivoluzionato il concetto di ascolto musicale, ha rovesciato le cose, ha cambiato, è il caso di dirlo, radicalmente l'atteggiamento nei confronti del sonoro, invitando ad ascoltare il mondo: io decido che ciò che ascolto è musica. O, altrimenti detto: è l'intenzione di ascolto che può conferire a qualsiasi cosa il valore di opera. Ciò implica di conseguenza un'altra definizione di musica. Cage voleva semplicemente dimostrare “che fare qualcosa che non sia musica è musica”. La poetica di Cage si può inserire in quel filone dell'arte figurativa dell'astrattismo gestuale di Pollock, Kline, De Kooning. E se 4.33 non contiene alcun suono, Robert Rauschemberg ha realizzato dei dipinti, semplicissime tele bianche, che non contengono alcuna immagine “questi dipinti diventano aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell'ambiente", mentre il compositore coreano Nam June Paik ha girato un film della durata di un'ora, che non contiene immagini, e Dieter Schnebel ha concepito la Muzik zum Lesen (musica da leggere), partiture che non sono destinate all'ascolto o all'esecuzione, ma alla lettura. Tutto ciò, da diversi punti di vista dunque, ci riporta alla concezione del silenzio di Cage: “Per me il significato essenziale del silenzio è la rinuncia a qualsiasi intenzione”, una rinuncia alla centralità dell'Uomo, il che implica l'eliminazione totale del gusto, del ricordo, e del desiderio, una regressione e una rinascita all'innocenza. Il silenzio, la filosofia zen, l'identificazione dell'arte con la vita, il ricorso alle tecniche aleatorie e casuali volte a eliminare l'aspetto soggettivo del processo compositivo, l'apertura totale nei confronti del sonoro, la passione per Marcel Duchamp, per i funghi, per l'astronomia, ne fanno una delle figure creative più originali ed aperte, ancora da scoprire sotto certi aspetti, del secolo appena trascorso.

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