3.10.09

Gina Pane

Gina Pane è nata a Biarritz, in Francia nel 1939 ed è morta a Parigi nel 1990. Dopo una formazione alle Belle Arti di Parigi, Gina Pane , alla fine degli anni 60, diventa un'importante protagonista della body-art: nelle performance, adopera il suo corpo per ferirlo,trafiggerlo, oltrepassarlo: sul palmo candido della mano o sul lobo morbido dell'orecchio o sulle dita del piede, un deciso colpo di lametta sferrato con tensione, provoca una ferita, un solco di sangue. La ferita e il suo sangue, vengono vissuti come elementi accusatori e infine liberatori, lo sfidare il corpo penetrandolo grazie a tagli e ferite esprime il desiderio insano di attraversarlo nella sua totalità, ma anche di approfondire il rapporto con esso, insieme a quello di violare i tabù legati al sangue e alla violenza fisica. L'esterno da cui salvarsi, i ricordi da cui liberarsi attraverso il trauma emozionale di una lama che affonda nella carne, il disgusto come dimensione inoffensiva appartenente alla normalità, viene riattivato dalla Pane e liberato nello shock emotivo delle sue performance: il suo lavoro è una sorta di navigazione nell'inconscio collettivo. “I miei lavori erano basati su un certo tipo di pericolo. Arrivai spesso ai limiti estremi, ma sempre davanti ad un pubblico. Mostravo il pericolo,i miei limiti, ma non davo risposte. Il risultato non era vero e proprio pericolo, ma solo la struttura che avevo creato. Questa struttura dava all'osservatore un certo tipo di shock. Non si sentiva più sicuro. Era sbilanciato e questo gli creava un certo vuoto dentro. E doveva rimanere in quel vuoto. Non gli davo nulla”. Grazie alla sua sensibilità, le sue azioni hanno un forte aspetto emotivo più che cruento: sono atti calibrati in cui il sangue esce misuratamente, sono gocce, non pozze come nel caso di altri artisti suoi contemporanei. Nelle sue azioni colpisce l'incredibile calma e compostezza contrapposta agli abiti macchiati di sangue, al dolore come strategia di perdita di identità, come rivolta corporale, come insulto alla quiete sonnolenta in cui si vuole relegare la vita umana. Gina Pane si espone in prima persona in un rituale che traccia una speciale archeologia dell'esistenza, della propria vita, dei ricordi, delle esperienze, dei sentimenti, che ritualizza in una serie di gesti che aprono una ferita, tanto fisica quanto mentale. Con l'artista il privato diviene pubblico in una dimensione poetica prima ancora che politica, definisce una propria autonomia in cui la ferita consente un linguaggio , una comunicazione, un dialogo, che irrompe sulle relazioni mancate tra esseri dalle esistenze separate da convenzioni, scelte, referenze. “...Nel mio lavoro il dolore era quasi il messaggio stesso. Mi tagliavo, mi frustavo e il mio corpo non ce la faceva più…La sofferenza fisica non è solo un problema personale ma è un problema di linguaggio…Il corpo diventa l'idea stessa mentre prima era solo un trasmettitore di idee. C'è tutto un ampio territorio da investigare. Da qui si può entrare in altri spazi, ad esempio dall'arte alla vita, il corpo non è più rappresentazione ma trasformazione”. Nasce così l'idea di un corpo che diviene un nuovo territorio di discorso, una nuova indicazione di fuoriuscita dai vicoli ciechi di una realtà che ci ha trasformati in utenti, elettori, pazienti, clienti...nell'esplosione dell'identità e di tutte le sue gabbie di riconoscimento.

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