28.9.11

Iginio De Luca

Le manifestazioni artistiche del ventunesimo secolo - tra le quali soprattutto la Street Art - contagiano tutti, esperti e non, riscontrando sempre più consensi in ogni ambiente della società. Convergono, però, in un unico intento: comunicare un messaggio a chiunque vi entri in contatto. Uno dei maestri della comunicazione artistica è Iginio De Luca, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Roma e Professore all’Accademia di Belle Arti di Torino. Vanta un curriculum di oltre venti mostre, tra personali e collettive, ed è uno dei principali promotori delle nuove forme d’arte: dalla Street Art alla pittura, dal video all’installazione, dal suono all’elaborazione fotografica.Nel suo bagaglio artistico presenziano innumerevoli lavori che, in un certo senso, rompono con la “vecchia arte”. Dunque la parola chiave è comunicare. Oggi viviamo in una società in cui si ha sempre maggior bisogno di esprimere qualcosa agli altri (facebook ne è l’esempio più palese), e la Street Art sembra proprio rappresentare quest’irrefrenabile necessità. Egli afferma che quello che conta è tanto il mezzo quanto il contenuto, l’idea e il felice connubio di questi elementi. La street o la public art sono linguaggi che esprimono un’energia che esce dai canoni, dagli stereotipi e rischia perché si tuffa nel terreno globale, raccogliendo consensi e critiche. De Luca, citando solo gli interventi più recenti, ha proiettato in vari punti di Roma l’immagine del pontefice con la veste bianca macchiata, e prima ancora ha fatto volare uno striscione pubblicitario con la scritta “Silvio c’hai rotto li gommoni” , trascinata da un piccolo aereo lungo la costa laziale, popolata dalle folle estive al mare.La performance, l’installazione urbana effimera che ricordano in senso generale le grammatiche della Public Art e della della Street Art sono infatti solo alcuni degli ingredienti di queste incursioni di De Luca che tendono ad illuminare pezzi di cronaca incisivi sulla realtà profonda del nostro essere società ma che rischiano di sciogliersi rapidamente nel racconto dell’informazione mainstream. L’installazione, al contrario, pur nella sua qualità di incursione veloce, rimette al centro del discorso il problema che sta sfuggendo all’attenzione pubblica, vuole ricreare un nuovo spazio pubblico stimolando una sensibilità condivisa intorno ad un problema comune. Una serie di operazioni, quindi, che spostano la natura del graffitismo dalla dimensione più “privata” e neotribale legata ad un territorio di appartenenza - la strada, il quartiere, il ghetto - ad un’altra dimensione che è insieme più “pubblica” e metaterritoriale perché vuole attivare una comunicazione d’impatto estetico, dislocata su più piattaforme espressive: il luogo fisico, i giornali, le reti che sono ulteriori “materiali” a disposizione per la costruzione concreta dell’artefatto dell’arte contemporanea. Infatti gli interventi di De Luca non appartengono allo sfogo individuale, originariamente clandestino del graffitismo ma alla chiara presa di posizione personale e/o di gruppo che richiama l’esigenza propria delle origini delle avanguardie moderne e cioè quella di essere “realisti” ovvero usare i “materiali” reali e virtuali della contemporaneità per produrre una nuova dimensione dell’essere società. Iginio De Luca è un artista, uno spirito libero che gioca con strumenti e/o linguaggi radicati da decenni in italia, inserendoli in un contesto insilito, con l’obbiettivo di stimolare il pensiero. De Luca è riuscito in imprese quasi cinematografiche: proiettare un gregge di pecore sulla facciata di Palazzo Chigi il 14 Dicembre 2010, giorno della tanto discussa fiducia al governo Berlusconi e, precedentemente, riprodurre la scritta “LAVAMI” sul luogo inaccessibile e inviolabile per antonomasia, la Cupola di San Pietro.Ha scelto la cupola, la star delle cupole – ci spiega De Luca – perché incarna in un colpo solo il massimo grado di metafore religiose, politiche ed artistiche. Ha scelto una parola, una sola parola, che in sintesi comunichi più cose contemporaneamente. Gli piaceva l’idea di partire da un luogo comune, una frase popolare come “lavami” ed atterrare su un contesto che è unico, anti-democratico e snob per eccellenza. L’accostamento di questi elementi genera poi le metafore del caso e le conseguenti letture. La “Lavami” è un graffito di luce dai caratteri simili a quelli disegnati con le dita sui vetri sporchi delle auto in sosta.Un intervento, questo di Iginio De Luca, che usa i codici della Street Art: la velocità, l’irruzione, la notte e li riconduce alle origini delle avanguardie storiche, performance e spirito del cabaret, ad esempio, mescolando, come accadeva in quelle origini soprattutto dada, sensibilità sociale e 17- Brand, 2011, video, sonoro, colore, 16:9, durata: 5’17’’ Brand è un video che documenta un’azione notturna svoltasi a Roma in via Condotti il 23 gennaio 2011. Utilizzando un videoproiettore e un furgone che lo trasportava, ho proiettato il marchio dell’Ente Comunale di Consumo sulle pareti laterali della via. Come uno scanner il fascio luminoso ha indistintamente marchiato, “sporcando”, ogni cosa che incontrava sul suo cammino, “sfondando” le vetrine che esponevano beni di “secondaria o superflua necessità” (e non di prima necessità come invece era per l’Ente Comunale di Consumo).Il logo dell’Ente, una volta presente sulle carte oleate ad incartare il burro, ora si plasma anche sui vestiti -un altro tipo di incartamento- azzerando le distanze sociali, temporali e spaziali, varcando la soglia dell’irraggiungibilità e dell’intoccabilità di un’élite sociale rappresentata dalle griffe dell’alta moda.L’audio del video è stato registrato alla garbatella, un quartiere popolare di Roma, in piazza Bartolomeo Romano e precisamente nel luogo dove, decenni fa, c’era una delle sedi dell’Ente.Il titolo Brand è ironico, in controtendenza, a ribaltare un concetto snob di uomo e di vita.

16.9.11

Eva Marisaldi

Nata a Bologna nel 1966. Vive e lavora a Bologna. La sua ricerca condotta sul filo di un sottile e disincantato gioco intellettuale che amplifica e mette a nudo l’ovvietà degli sfuggenti accadimenti del quotidiano, si focalizza su aspetti di una realtà nascosta che solo la riflessione artistica è in grado di analizzare. Il suo lavoro è ampiamente poliedrico nella scelta del linguaggio e dei media di volta in volta sperimentati: va dal disegno al video, dall’installazione oggettuale all’azione, dalla fotografia alla scultura. Gioca sempre però con un’immaterialità la cui funzione espressiva si caratterizza proprio per quel margine di ermetismo che poco o nulla concede all’evidenza della comunicazione. Le sue opere di conseguenza non producono un impatto immediato e violento, ma richiedono lunghe pause di riflessione, accompagnando lo spettatore in un universo poetico e rarefatto “al limite con il vuoto e il silenzio”. Tra gli artisti italiani della sua stessa generazione più apprezzati all’estero, diversi musei italiani e stranieri le hanno già dedicato una personale (ARC Musèe d’Arte Moderne de la Ville de Paris, 1993; FRAC Languedoc-Roussillon di Montpellier,1995; Kunsthaus di Essen, 1995; Galleria d'Arte Moderna, Bologna, 1999; Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, 2000; Gam, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, 2002; MAMCO di Ginevra, 2003), mentre numerose sono le importanti rassegne internazionali che l’hanno vista partecipe: la Biennale d’Arte di Venezia nel 1993 e nel 2001; Soggetto Soggetto, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli, 1994; L’hiver de l’amour, ARC Musèe d’Arte Moderne de la ville de Paris e PS1, New York, 1994; Manifesta, Witte de With, Rotterdam, 1996; Exnchanging interiors, Museum van Loon, Amsterdam, 1996; Fatto in Italia, Centre d’Art Contemporain, Ginevra e ICA Londra, 1997; The 504 show, Braunschweig Kunsthalle, Zentrum fur Kunst, Brauschweig, 1997; Che cosa sono le nuvole, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Guarene-Torino, 1997; Officina Italia, Galleria Comunale d'Arte Moderna, Bologna, 1997; La ville , le jardin, la memoire, Villa Medici, Roma, 1998; Biennale di Istanbul, 1999; Biennale di Alessandria D'Egitto, 1999; la Biennale di Lione, 2003 ; la Biennale di Gwangju, Sud Korea, 2004; L'immagine del vuoto, Museo cantonale d'Arte, Lugano, 2006; Italian mindscapes, Museum of Art, Tel Aviv, 2007.

15.9.11

Giacomo Verde

Giacomo Verde nasce in provincia di Napoli nel 1956. Diplomato all'Istituto d'Arte di Firenze attualmente abita a Lucca. Svolge attività teatrale e artistica dal 1973. Ha collaborato con diverse formazioni come attore, autore, musicista o regista. Si occupa di teatro e arti visive dagli anni 70. Dagli anni 80 realizza oper'azioni collegate all'utilizzo creativo di tecnologia "povera": videoarte, tecno-performances, spettacoli teatrali, installazioni, laboratori didattici. Nel '83 inizia a realizzare videotapes, prima in rapporto alla pratica teatrale poi come opere a se stanti, con particolare attenzione alle potenzialità espressive dei mezzi poveri per mostrare, nelle installazioni e a teatro, come la creatività non dipenda da un forte dispiegamento di mezzi. L’idea alla base della produzione di Verde è una visione orizzontale della società, senza gerarchie né modelli culturali ed estetici imposti dall’alto. Vince concorsi e fonda progetti importanti come il "tele-racconto" ,di cui è l'inventore, una performance teatrale che coniuga narrazione, micro-teatro e macro ripresa in diretta - tecnica utilizzata anche per video-fondali-live in concerti, recital di poesia e spettacoli teatrali. Dall '86, fino agli ultimi anni, realizza videoistallazioni partecipando a diversi festival ed esposizioni nazionali ed internazionali. Nell '89 vince il concorso per storyboard al pow di Narni con "stati d'animo" (dal trittico di Boccioni, realizzato poi in computer grafica). Nel '90 compie un viaggio di studio in Senegal (col Teatro delle Albe di Ravenna) e fonda il Progetto, appunto, di "Tele-Racconto" realizzando, fino ad oggi, sette diverse opere e laboratori didattici. Avvia così molte altre attività di video didattica per hobbysti e insegnanti, fino agli ultimi anni. Giacomo Verde rappresenta uno dei ponti ideali tra la prima stagione pionieristica di sperimentazione video e multimediale in italia e la fase di sperimentazione attuale. E' tra i primi italiani a realizzare opere di arte interattiva e net-art. Riflettere sperimentando ludicamente sulle mutazioni tecno-antropo-logiche in atto e creare connessioni tra i diversi generi artistici e' la sua costante. Pur avendo lavorato con i più disparati mezzi di espressione - teatro, video, computer, web - ciò che contraddistingue la sua produzione artistica è il costante e coerente uso politico e dal basso delle tecnologie eletroniche e digitali alla continua ricerca di "azioni oltre le rappresentazioni". All'interno della scena interattiva italiana, Verde è sicuramente una delle figure più sfaccettate per il numero di attività e di campi di interesse. L'interattività è il suo obbiettivo fondamentale, perseguito con tenacia e quasi con ostinazione, per lui essa deve restituire l'arte ai consumatori, in modo che non siano più spettatori ma diventino produttori. Verde riflette da tempo sulla possibilità di fondere l'esperienza estetica con la pratica comunicativa dell'arte,esplorando anche attraverso i diversi media e il web, nuovi modi di "fare mondo" e "creare comunità" con l'obiettivo di agitare le acque dell'arte con la forza dell'attivismo e di creare eventi e contesti sempre più "partecipati": dai laboratori per i bambini ai Giochi di autodifesa televisiva. La pratica del teatro sperimentale, il legame strettissimo con le tradizioni popolari (Verde è stato suonatore di zampogna e artista di strada) lo hanno condotto "naturalmente" verso l'utilizzo del video in scena. Una figura ricorrente in molte opere e performance di Giacomo Verde è la figura del Cerchio che è in relazione alla complessa simbologia del Mandala, immagine archetipica che in sanscrito significa “cerchio magico”, presente sia nella cultura orientale sia in quella occidentale come rappresentazione simbolica del cosmo, dei processi creativi e della crescita del sé. E’ di forma mandalica la videoscultura realizzata nel corso dell’ azione performativa "Rivel’Azione" ,ad esempio. Performance composta da un grande disco circolare di legno dipinto in cui sono incastonati quattro monitor pulsanti e nel cui centro è collocata la carcassa silente di un televisore fatto a pezzi durante la performance. Scopo dell’operazione è la realizzazione live di un grande “mandala meditativo occidentale” per riflettere sul rapporto tra scultura, pittura e televisione nell’era mediale; un’operazione dove, in maniera ironica e dissacrante, l’arte elettronica si fa veicolo di un incontro tra cultura orientale ed occidentale. L' attività artistica di Giacomo Verde, più che consistere nella produzione di oggetti da esporre in mostre e gallerie, si traduce in “oper’ azioni” che convocano lo spettatore in un cerchio relazionale dove è “vietato non partecipare”, e questo vale in particolar modo a partire dagli anni ‘90, quando Verde ha cominciato, tra i primi in Italia, ad occuparsi di arte interattiva: “qualsiasi opera interattiva si può comprendere e giudicare soltanto se la si “abita completamente”, se ci si sta dentro senza riserve, ovvero mettendo in gioco i propri desideri e le proprie aspettative in prima persona ... il vero soggetto è il comportamento dei fruitori" .
L’interesse per l’interattività rappresenta lo sbocco “naturale” di un percorso artistico che ha da sempre privilegiato modalità performative, a partire dalle prime esperienze formative degli anni ’70 come animatore teatrale, cantastorie e musicista, attività che attestano un legame forte con le tradizioni popolari e l’esigenza di lavorare a stretto contatto con il pubblico. Allo stesso modo, le sperimentazioni con le tecnologie elettroniche e digitali che sempre più, a partire dagli anni ‘80 caratterizzano il suo lavoro, sono strettamente intrecciate al bisogno di intervenire su quelle “zone calde” della comunicazione contemporanea rappresentate dai mezzi di comunicazione di massa, per proporne usi alternativi, al di fuori delle logiche di mercato. L’approccio alla tecnologia è “low tech” per consentirne un uso accessibile a tutti e smitizzarne le valenze feticistiche. Approccio che privilegia pratiche collaborative e connettive, in modo da mettere in relazione persone e competenze diverse, contaminando linguaggi e generi. Non si contano le collaborazioni di Giacomo Verde con musicisti, teatranti, artisti, poeti, filmaker indipendenti, studenti, insegnanti ed operatori didattici: “mi piace molto mettere in relazione diversi linguaggi, così si possono fare opere più complete e plurisignificanti. E mi piace molto lavorare in gruppo, affidare parte del lavoro ad altre persone”.
L’impegno in ambito sociale e politico è un altro aspetto fondamentale che contraddistingue l’estetica relazionale di Giacomo Verde e che si traduce in svariate pratiche di attivismo artistico - azioni di netstrike, di sostegno e partecipazione attiva a campagne di controinformazione e ad iniziative no-profit - in una costante ricerca di un punto di equilibrio, non sempre facile da attuare, tra “bellezza” e “giustizia”, di quel mix giusto fra atteggiamenti etici (morali e politici), aspirazioni e ispirazioni espressive, tenuta e innovazione linguistica.
Distante dagli aspetti più vistosi e spettacolari del sistema dell’arte contemporanea, l’operare artistico di Giacomo Verde attecchisce e prolifica in territori decentrati ma vitali, per dar voce a bisogni e ad immaginari che non trovano spazio nei media ufficiali. Molti dei suoi progetti si configurano come kit creativi dotati di “istruzioni per l’uso”, opere aperte, o meglio “open source”, il cui codice sorgente è a disposizione di tutti, per incentivare sia la creatività individuale che collettiva. Lo spettatore che Giacomo Verde intende convocare attraverso le sue opere è uno spettatore vigile, consapevole dello scarto tra realtà e rappresentazione, che non si lascia trasportare passivamente nel gioco illusionistico dell’arte. Mettere in scena il linguaggio oltre che i contenuti, mostrare i processi di trasfigurazione del reale che ogni atto rappresentativo comporta, sono strategie estetiche e cognitive, “strategie di smascheramento” e di rottura della cornice illusionistica costantemente adottate da Giacomo Verde, come nel Tele-Racconto, dispositivo ideato dall’artista negli anni ’90, in cui si intrecciano narrazione, micro-teatro e macro-ripresa in diretta, divenuto poi una sorta di prototipo per altre oper’azioni performative, quali la realizazione di video-fondali-live in concerti, recital di poesia e spettacoli. Infine una scanzonata ironia, un’attitudine ludica e liberatoria permeano con una “leggerezza pensosa”, la sua poliedrica attività; del resto comicità e ironia, nell’arco di tutto il novecento, si sono rivelate delle preziose compagne dei linguaggi artistici, costituendo delle modalità espressive privilegiate attraverso cui si è cercato di dominare, metabolizzare e mettere in forma temi cruciali e perturbanti della contemporaneità.

7.9.11

Rodney Werden


Videoartista nato a Toronto, Canada, nel 1946.
Informazioni inerenti alla sua crescita e all'istruzione ricevuta non sono pervenute.

Rodney Werden ha prodotto in totale 17 videocassette, la maggior parte tra il 1974 e il 1987.
I temi trattati da Rodney, sono principalmente legati al sesso, vissuto nelle sue forme più variegate e perverse, tuttavia il suo modus operandi, per quanto esplicito mette in risalto un desiderio d'introspezione che l'artista rivolge, oltre che al soggetto filmato, a se stesso, finendo per essere più volte fisicamente partecipe nei suoi stessi video, anche solo come voce. Le sue registrazioni tendono tutti alla messa a nudo dell'individuo, in tutti i sensi, o per essere più precisi, al denudare con flebile lentezza il soggetto per poter cogliere in tale atto, quante più sfaccettature inconsce vengano fuori, attraverso questa “interazione” diretta.

Non è un caso infatti, che molti dei suoi lavori, siano, tecnicamente, delle vere e proprie interviste di tipo documentaristico.
I suoi primi lavori erano strutturati come sessioni di posa prolungate, non eccessivamente dinamiche e votate all'ascolto.
Abbracciando temi quali sadomasochismo e feticismo sessuale, la sua ricerca, si estende al “ruolo” della società, e della sua artefatta moralità, rispetto al sesso; a quanti cambiamenti ed evoluzioni-ibridi questa ha partorito, deformando concetti e istinti naturali e confezionandoli in canonici standard. Se il valore civico-morale della società ha creato degli schemi, possiamo dire che l'occhio e l'obbiettivo di Rodney Werden, son volti verso ogni cosa provi ad evadere questi schemi e alle tracce che vi si lasci dietro nel tentativo.
Le sue produzioni quindi, oltre ad acquisire una duplice chiave di lettura, divengono sempre più esplicite e dirette, non si girano provini, non esistono prime, seconde o terze scene, tutto viene catturato secondo la natural cadenza del tempo, ma oltre questo evidente dettaglio strutturale, è possibile individuare nelle sue produzioni più mature, una critica allegorica alla condizione mentale indotta propria della prostituzione. Analisi celata in poche ma essenziali battute che rivelano l'incapacità di creare una sensazione, seppur sgradevole, l'incapacità di simulare e indurre un puro desiderio di rigetto e disgusto (verso la propria persona) al cliente pagante, che richiede tale trattamento, tale indotta e mal simulata manipolazione mentale a pagamento.
I suoi ultimi lavori, differiscono dai precedenti, essendo principalmente legati al mondo dell'economia di consumo, proponendo una critica scherzosa ed amaramente ironica al capitalismo.
Ad oggi sono unicamente note due esposizioni pubbliche dei suoi lavori.

Peter Whitehead


Regista Inglese nato a Liverpool l'8Gennaio 1937,

conosciuto per essere stato il regista di video promozionali come Interstellar Overdrive dei Pink Floyd e molti altri dei Rolling Stone. Peter Whitehead è stato oltre a regista anche scienziato, scrittore e fotografo. Studente d'arte che divide gli anni della facoltà con Syd Barret, ingaggiato poi per la Rai come cameramen a Londra, un esperienza fondamentale insieme alla scoperta dei maestri del tempo: Antonioni, Bergman, Godard. Tra i film proprosti in Italia c'è Wholly Communion.
Il lavoro di Whitehead compie una sintesi eccezionale, aperta ad ogni dimensione diversa del cinema d'avanguardia. Ha aperto una strada personale del cinema documentario offrendo al pubblico una visione singolare, un interpretazione unica con documentari, arte politica e il soprannaturale; questa retrospettiva dei suoi film pone il regista il prima linea per la sperimentazione cinematografica e può essere proclamato "genio del documento d'arte". L'unico tema vincolare di tutti i suoi film è l'idea della vita come una performance in corso, ovunque la sua macchina fotografica guardi le persone stanno mettendo su uno spettacolo, i cantanti in concerto, i poeti fanno le loro cose e gli intervistatoti con la loro serietà.
In una delle sue interviste il regista ha affermato che" lo scopo dei miei principali lavori è stato quello di trasferire nelle immagini la grande energia della musica" come emerge con impatto e potenza in Led Zeppeling degli anni '70. Ma i suoi inizi risalgono agli anni '60 quando riprese per primo Jam session e gli happening della "Swinging London" come cameramen per la Rai, di quel periodo è il filmato sui The Beach boys.
L'apoteosi arriva per lui con Lady Jane con le immagini ai ralenti Rolling Stone anticipando anche se con scarsi mezzi tecnici lo stesso effetto utilizzato poi sa Scorsese in Shine a Light.
La sua capacità è stata quella di intuire negli artisti quello che oggi si indica come "x factor" prima ancora che diventassero famosi, come successo per i Stones e per i Pink Floyd. Il suo talento emerge nei videoclip psichedeliaci di Jimi Hendirix grazie alle zoomate di esplosioni di luce rosso porpora che contrastano lo scuro dei capelli e della pelle del chitarrista. Peter Whitehead ha ricevuto l'Award Fellowship 2009.

6.9.11

Chiara Passa


Chiara Passa è una giovane artista italiana attiva nell'arte digitale dal 1997, ha eseguito gli studi artistici, frequentando il Liceo Artistico di Salerno, poi successivamente ha frequentato l'Accademia di Belle Arti di Napoli. Ha vissuto e lavorato a Lisbona e a Milano e al momento è stabile a Roma. In Italia è tra i pionieri nell'impiego del digitale come strumento di creazione artistica, Chiara progetta le sue opere adoperando più mezzi: l'animazione e la video installazione interattiva al confine tra reale e virtuale, utilizzando forme geometriche essenziali che sfociano in una visione dinamica e tridimensionale dello spazio. Un' idea di performance è alla base delle sue opere, dove il luogo è autonomo e si muove oltre la sua funzionalità, le installazioni coinvolgono in prima persona lo spettatore, spingendolo a confrontarsi con una nuova spazialità. Ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti tra cui il "premio econtentward" per miglior contenuto in formato digitale.

2.9.11

Ivan Moudov

Ivan Moudov è uno dei più interessanti artisti bulgari della nuova generazione. Vive e lavora a Sofia, in Bulgaria, dove è nato nel 1975. Dopo aver frequentato l’Istituto d’Arte, si laurea nel 2002 all’Accademia Nazionale delle Arti di Sofia con un master in arte e pittura murale. Lavora prevalentemente utilizzando strumenti espressivi quali il video, la fotografia, l’installazione e la performance.
Ben presto il mondo che lo circonda diventa per Moudov base di riflessione e pratica artistica. Appartiene alla generazione di artisti che senza compromessi prendono posizione per lo sviluppo di un’arte a tendenza post-concettuale, infatti ogni lavoro creato dall’artista mostra oggetti o situazioni il cui valore simbolico o metaforico è accentuato al più ampio grado possibile. Il percorso creativo dell’artista bulgaro, tante volte è riconosciuto soprattutto per le sue azioni artistiche “illegali” che affrontano (spesso con una buona dose di humour ed ironia) questioni controverse relative a potere e controllo sociale, appropriazione ed autorità di un’opera d’arte.
Da citare sono una serie di performance intitolata “Traffic Control ”,(realizzate a Graz nel 2001 a Cetinje nel 2002 e a Salonicco nel 2003) dove l'artista vestito da poliziotto bulgaro regola il traffico investigando sulle reazioni dei guidatori. La documentazione comprende anche due video di sabotaggio civile in cui Moudov, utilizzando il sistema delle precedenze in una rotonda, crea situazioni a limite e analizza le differenti reazioni a seconda del contesto culturale. (One Hour Priority, Sofia 2000; 14:13 Minutes Priority, Wiemar 2005). Come Moudov afferma, le sue performance “sono un modo di intervenire nella legge e nei regolamenti senza infrangerli (…) è una questione di sottile differenza fra legalità e illegalità delle azioni”.
Inoltre due opere di Moudov ci fanno riflettere criticamente sull'istituzione museale. La prima è la “Fragments Box” dove nel corso di un anno e mezzo (dal 2002), l’artista ha collezionato e catalogato frammenti sottratti a diverse opere d’arte appartenenti a diverse istituzioni, Musei e Gallerie d’Europa. Ogni frammento raccolto è stato accuratamente depositato in una valigia che immediatamente evoca la celeberrima Boîte-en-valise di Marcel Duchamp o simile anche alle scatole di Robert Filliou. Questi pezzi nella valigia, diventano la collezione personale di viaggio dell’artista o personalissima “Arca di Noè”. Tolti dal luogo originario la loro forma/significato cambia. Moudov con questo progetto segue le investigazioni nella linea della “critica istituzionale”, la condizione museologica della rappresentazione, il senso del collezionare e i giochi simbolici del potere. Un secondo lavoro dell'artista che segue questa linea ed ha suscitato grande clamore è l'annuncio dell'apertura di un inesistente Museo d’Arte Contemporanea attraverso un’imponente campagna pubblicitaria, dove è riuscito a coinvolgere circa trecento persone per l’inaugurazione e a far pubblicare numerosi articoli sull’argomento, richiamando così l’attenzione dell’opinione pubblica sul fatto che a tutt’oggi in Bulgaria non esiste un Museo destinato ad ospitare opere di artisti contemporanei.
Moudov nelle sue opere non solo propone un’alternativa alla libera circolazione dell’arte, che diventa così itinerante, ma muove fra le righe una critica pungente e poetica nei confronti di quelle istituzioni, e di quei collezionisti, che hanno dato vita a un sistema dell’arte chiuso -troppo, per le nuove generazioni- e volto a promuovere solo un certo tipo di arte. Quell’arte strettamente legata alle rigide leggi del mercato. Che costa e fa parlare, certo; ma che resta sostanzialmente chiusa alla molteplicità dei fruitori. Facendosi beffa di questo concetto, esegue una performance dal titolo vagamente ironico: “Romanian Trick”. Separa la parte esterna di una moneta da un euro da quella interna gettandola moltissime volte per terra. Qui l'acume artistico è alla portata di tutti e quindi niente di nuovo. Ma c'è un sottile riferimento fra il ripetersi monotono dei gesti sincopati dell’artista e le già viste azioni di carattere post-concettuale dell’ultimo decennio. Inoltre nell’intervento di Moudov viene a manifestarsi la volontà di prescindere dal solito tran-tran che regola i contratti fra autori, gallerie e musei a favore del più rassicurante (visto il periodo di crisi) baratto.